Cataloghi & brochure

Impaginazione e grafica materiali cartacei: Luca Coruzzi

Il diario della ragazza di King Kong
di Marco Mirabile

Con gli anni ho capito che King Kong è diventata una cosa spirituale per molti, e anche per me.
 (Fay Wray)

Il diario della ragazza di King Kong è il titolo della mostra che Monica Leonardo ha voluto per tracciare il percorso artistico di questi ultimi anni, un cammino che l’ha portata a riflettere in modo complesso sulle contraddizioni della realtà. È un titolo impegnativo, che pone l’accento sull’aspetto autobiografico, un diario, appunto, o confessioni di una ragazza non qualunque, Ann, la ragazza di King Kong, inorridita e affascinata dall’enorme bestione, che passa con lui dalla giungla alla cima dell’Empire State Building (prima che gli aeroplani da guerra glielo ammazzino). King Kong, e l’esile Ann lo sa benissimo, è una bestia ferita, capace di provare sentimenti e di riconoscere la bellezza. Tra i due c’è un rapporto tutt’altro che unilaterale, è la realizzazione di uno scambio impossibile. Così il mostro diviene simbolo di mistero, di fascino ancestrale e di incomprensione dell’uomo verso sé stesso e la natura.
Le suggestioni contenute in questa memorabile vicenda evocano in modo efficace lo spirito dei nuovi lavori di Monica, in bilico tra umano e primitivo, dalle quali emergono infinite possibilità identitarie, di specie e di genere. In un primo sguardo complessivo si è tentati da interpretazioni freudiane, complici le atmosfere rarefatte, oniriche e vagamente sessuali dei cicli Notturni e Mutazioni, poi lentamente si raggiunge un più approfondito livello di meditazione, sviluppatosi dalla volontà di leggere in tutto questo gioco di luci e di ombre, di apparizioni e di sparizioni (Ragazze che attraversano il fiume di notte; I diversi stadi della vita di una farfalla; Farfalla), una rassicurante logica interna. Che, letteralmente, logica non è. Perché non c’è progetto, non c’è previsione, nelle opere di Monica c’è l’inesausto desiderio di osservare la natura delle cose, animate e inanimate, da un punto di vista che non è mai lo stesso. Dunque nessuna rassicurazione, ma equilibri precari, che s’avvicinano alla realtà delle cose in modo molto più sincero di quanto non faccia una pretesa verità. Le figure di Monica sono anonime, ossia prive degli accessori necessari per il riconoscimento e l’ambientazione. Il vestito, se c’è, perde le sue caratteristiche di comunicazione con il mondo, che è invece assunto esclusivamente dal corpo, animalesco, e in particolare dal viso e dallo sguardo, a volte malizioso (Ragazzine con i pattini sulla Promenade des Anglais) e in contrasto con l’apparente innocenza del soggetto. Sono opere che trasmettono inquietudine (L’urlo del daino), che scuotono e interrogano lo spettatore (Gorilla femmina; Talpa che esce allo scoperto), il cui sguardo, quando si allontana dall’opera, vaga alla ricerca di un appiglio intorno, di una sorta di spiegazione, insomma di qualcosa che plachi l’imbarazzo e il turbamento suscitato, senza trovare risposta.

Nulla è cambiato.
Tranne il corso dei fiumi,
la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.
Tra questi paesaggi l’animula vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a sé stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza,
mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è
e non trova riparo.
(Torture da Gente sul ponte di Wislawa Szymborska)

Sembra che alcune opere parlino di cadaveri (Vannia; Il vestito della ragazza cieca), altre di erotismo velato (Jen Davis); a volte sembrano stonare fra loro come colori non azzeccati e non amalgamati in un insieme, e destano strani interrogativi. È lo stesso senso di spiazzamento che si incontra nelle opere di Marlene Dumas, una vertigine che coincide con la visione dell’artista: l’osservatore non può che avvicinarsi con sospetto. E in questo caso essere sospettosi non significa costruire muri mentali o limitare il proprio sguardo, ma può rivelarsi l’ennesima tattica per dimostrare attenzione verso il mondo, “la conferma che anche un vecchio mezzo come la pittura ad olio non sia solo un interludio estetico, ma serva ancora a suggerire posizioni critiche, una rete propositiva e riflessiva, un sistema aperto da opporre al conformismo, alle bugie spacciate per verità. (E ora che sappiamo che le immagini possono significare qualunque cosa, da parte di chiunque, non ci fidiamo più di nessuno, tanto meno di noi stessi)”. Le inquiete meditazioni dell’artista riguardano anche l’esercizio del d’après, quando ridipinge una stessa immagine, o quando reinterpreta una fotografia, aumentandone il tempo di osservazione. Per Monica ripetere vuol dire restituire la dimensione precaria del soggetto: nello spostamento dei dettagli, nel rovesciamento dei colori è sottesa quella ricerca dell’imprendibilità di cui s’è parlato prima. L’interesse della pittrice è la resa del soggetto come fenomeno: non c’è risposta, non c’è spiegazione. C’è immersione totale, partecipazione naturale, e desiderio inappagato (quindi sempre vivo) di comprensione, come quel meraviglioso Pinnipede che nuota nell’azzurro e non sappiamo verso cosa, o come quell’Uomo sub squagliatosi per sbaglio in irrisolte texture rosa, su increspati fogli di carta. L’idea dell’animale e della sua mutazione in uomo-animale (Leonessa; Coppia di felini sul filo) deriva da un viaggio di Monica in Francia, nel 2009, quando entra in contatto con le bestie libere del parco di Lyon e di Montpellier. In particolare, gli stimoli per intraprendere il discorso sull’ibrido scaturiscono da esperienze di confronto letterario e artistico: come la ricognizione visionaria del Manuale di zoologia fantastica di J.L. Borges, una carrellata di ottanta creature mitiche descritte con la tipica leggerezza dell’autore argentino. Come i soggetti di Lynch, The Elephant Man o Rabbits; e i lavori videoartistici di Douglas Gordon. Qui Monica accosta materiali differenti: legno, tessuti, plastica, carte di diverso peso e colore, stampe con plotter.
In mostra la combinazione più frequente è quella del corpo di bambina o di donna, con testa di coniglio, poi di uccello, di elefante, e infine di daino. In queste opere le mutazioni vengono recepite come qualcosa di mostruoso e innocuo, capaci di definire (paradossalmente) per contrapposizione o rispecchiamento, la vera natura dell’essere umano, investendo cioè i confini, ora netti ora sfumati, fra umano e bestiale. Per Monica le due categorie non appaiono mai del tutto distinte, bensì sovrapposte o comunque abbastanza fluide. L’uomo non è visto come un essere superiore alla natura, come qualcos’altro rispetto al mondo animale: ecco perché le “bestie umane” sono un evidente elemento di contatto, un ponte fra l’uomo stesso e ciò che lo circonda.
In Mutazioni i soggetti sono inizialmente avvertiti come presenze negative, tuttavia la deformità o la straordinarietà degli ibridi sono motivo di rispetto e compassione. In loro si riconosce qualcosa di umano (Home; Coniglietta in casa al buio, sotto delle luci rosa) verso cui provare empatia, solidarietà, fratellanza. Come quell’okapi di Eugenio Montale (tra gli autori preferiti di Monica), nel racconto Reliquie (da Farfalla di Dinard), dove l’ibrido è descritto come “un esemplare unico al mondo” perché “mezzo asino, mezzo zebra, mezzo gazzella, mezzo angelo”. Una sorta di animale custode, oltre che senhal di Clizia, del quale lo scrittore mette a nudo tutta la fragilità. Come lui, l’okapi “trema di terrore se vede gli uomini: è troppo delicato per stare tra belve come noi”. Esattamente lo stesso ribaltamento applicato all’opera che Monica intitola Il prato sul grattacielo, nella quale l’elemento bestiale è rappresentato da una pioggia di piccoli e inoffensivi gorilla, e quello umano da una ragazza diafana, alabastrina, sulla cui tellurica chioma si inserisce un’immanente spettacolo collinare.
In Notturni viene portata avanti la riflessione sulle mutazioni, con la differenza che i soggetti sono immersi in tinte fosche e grumose. Per Monica “la notte agita i sensi e cancella le cose nello spazio, cancella l’identità personale. Nella notte siamo più nudi, più autentici. Si perdono le maschere, siamo abitanti di città invisibili”. Le città che Marco Polo racconta a Kublai Khan nel romanzo di Calvino, immaginarie, descritte minuziosamente, guardando dove tutti gli altri non guardano, verso dettagli che ad altri sembrano invisibili; raccontando di città che attraverso i cambiamenti danno forma ai desideri e di città in cui i desideri cancellano la città stessa. Se Monica fosse una città invisibile sarebbe Zenobia, con le sue palafitte e le sue scale sospese, dove le case sono di bambù e di zinco, con molti ballatoi e balconi, poste a diversa altezza, su trampoli che si scavalcano l’un l’altro, collegate da scale a pioli e marciapiedi pensili, sormontate da belvederi coperti da tettoie a cono, barili di serbatoi d’acqua, girandole marcavento, in cui sporgono carrucole, lenze e gru. Insomma un groviglio di elementi che si sostengono in equilibrio su un incerto letto d’acqua. La stessa acqua che provoca incertezza in chi l’attraversa, per esempio quella del fiume Trebbia dove Monica si reca per fare riprese video, nelle quali compaiono bagnanti che tentano di raggiungere la riva opposta, tremando, a volte scivolando, ognuno col suo intimo peso specifico. La stessa acqua metafora della perfezione umana, perché non assume nessuna forma stabile, perché non ha regole, perché la sua regola è appunto quella di sapersi conformare a ogni superficie, scivolando a valle, vincendo ogni resistenza.

Cos’è mai l’uomo se non una massa di creta che sgela? Il polpastrello del dito umano, altro non è che una goccia congelata. Le dita delle mani e dei piedi fluiscono verso la loro ampiezza dalla massa del corpo che si scioglie. Chissà in quali forme si espanderebbe e fluirebbe il corpo umano, se si trovasse sotto un cielo più adatto! Non è forse la mano una foglia di palma aperta, con i suoi lobi e le sue vene?
(Da Walden o Vita nei boschi di Henry David Thoreau)

Nei Notturni la pittura diventa uno strumento per comunicare con la natura. Monica, come un viandante, abbandona la sicurezza e il conforto della propria casa per inoltrarsi solitaria in un mondo misterioso, smarrisce la sua centralità umana per strade impossibili.
C’è qualcosa di arcaico e di terribilmente moderno in queste opere. Sono composizioni bidimensionali in cui viene ridotta al minimo la prospettiva e ogni effetto illusionistico, dove il chiaroscuro si diluisce in campiture vibranti, e dove la luce è tenue e soprannaturale, i colori chiari giocano con armonie perlacee di rosa, grigi, azzurri nel silenzio rarefatto e denso di poesia. Monica percorre i vari aspetti della vita: l’infanzia, il ricordo, la natura, la morte. C’è un senso del tempo che ci porta attraverso la dimensione onirica, fino ad arrivare al gioco, all’ironia, come in Autoritratto e Il sangue freddo di un daino travestito, in beffa agli orpelli mistificatori della pittura perbene, in cui “l’ibrido dell’ibrido” esprime l’estrema realtà della notte.

Where has the wolf gone? 
He disappeared under the skin of my fingers.
(Da The Puppet of the Wolf di Margaret Atwood)

Saggio del catalogo stampato da Mattioli per la personale “Il diario della ragazza di King Kong” a cura di Roberto Bertorelli – Parma, Galleria il Sipario, 14 maggio -14 giugno 2011. Progetto grafico di Luca Coruzzi

Graffiare la bellezza
di Marzio Dall’Acqua

Una bellezza quieta, chiusa in sé, quella delle figure femminili di Monica Leonardo, dai grandi occhi spalancati, un po’ stupiti ed un po’ malinconici, aperti al mondo eppure perduti dietro visioni di lontananza. Non ti guardano eppure di fronte a loro ti senti come indagato, inadeguato, come se avessero da muoverti accuse silenziose, richieste impossibili, fossero sempre tormentati da una chiusa implorazione, una non detta supplica e basta la lieve nudità del collo, delle spalle, della gola, per suggerire un senso di docilità, un po’ dea vittima predestinata, una passività portata alla remissione ed al fatalismo, una cedevolezza al futuro che non si immagina neppure, che è abitudine ad un passato già subito, già patito.
Remissività, dolcezza sottomessa, quasi rassegnata, dai larghi occhi da gazzella, sono insieme ad una evidente bellezza le connotazioni immediatamente percepibili delle figure di Monica Leonardo, che sembrano intrusioni del presente, immagini strappate alle pagine dei giornali femminili, alle foto di modelle altere, inaccessibili ed insieme perdute dietro a sogni così privati ed intangibili da non sembrare reali, da non essere di carne e nello stesso tempo così affascinanti, così seducenti che non possiamo staccarci da loro, dai loro accennati sorrisi, dai loro lucenti “sguardi da opossum”. La femminilità è la cifra della malia, del coinvolgimento, proprio in questo offrirsi mentre dentro si è altrove, in questa sottile suadente fisicità della presenza, mentre l’incantamento è solo sospensione, interiore assenza, offrirsi della pelle all’occhio che guarda ed accarezza, ma non possiede, non rinchiude.
E questo fascinoso incanto si allontana dal presente, dall’oggi, dal qui ed ora, poiché si sottrae ad una contemporaneità alla quale non appartiene. Sembrano qui, tangibili, sincrone al nostro sentire, pronte ad agire, queste bellezze seduttrici, eppure, a guardare meglio ci si accorge che sono in realtà non presenze concrete, non allusive ad esistenze altre, in sincronia con il nostro respiro, ma sono immagini, sono pelli di cromie, già agite dal tempo, da uno scrostarsi, da un lacerarsi, un fessurarsi, in lieve colare di lacrime cromatiche, un ispessirsi ed indurirsi di linee di matite, di tempere, di pastelli. La realtà si sgretola dolcemente e lentamente davanti a noi, con tempi lunghissimi, impercettibili e nello stesso momento così difformi dal nostro mutare che queste figure denunciano sangue ed epidermide diversi dai nostri, non riescono a nascondere la loro bidimensionalità di figure dipinte, suasive nella loro apparente oggettività, invero ombre di altre e morte stagioni. Il loro tempo ed il loro esistere non è il nostro.
Accorgersi di questo significa mettere in discussione il loro fascino il loro potere e la loro capacità di seduzione, il loro catturarci attraverso estenuate dolcezze e incontaminate luminose bellezze. Non siamo invero contemporanei. E la loro consistenza di carne e di sguardi non è solidità, non è che un offrirsi senza tempo, un protrarre all’infinito un istante che si corrompe al di là dell’immagine che invece rimane immutabile, che mantiene intatta la sua carica di attrazione, la sua possibilità di incantamento e di innamoramento, con quella elusiva corresponsione, con quella disponibilità di facciata, perché tale è. Sono dunque manifesti, quadri corrosi da muffe che sembrano lebbra, irrispettose del tumido delle labbra carnose dello sgranarsi delle pupille intense e spalancate, della dolcezza di guance e mascelle, della tenera commovente nudità del collo e dell’arretrare nudo delle spalle. Una corrosione, che diventa strappo, lacerazione, affioramento di mura, di materiali su cui si attaccano queste superfici, che come tali vengono denunciate. Dovevamo capirlo dal taglio da manifesto, da inquadrature da film che queste immagini erano rappresentazioni, erano evocazioni, allusioni, rimandi e non avevano consistenza, non avendo corpo, ma solo impaginazioni. Eppure il loro incanto era tale che ci dichiaravamo disposti ad amarle, a parlare con loro sentendone, in un gioco impossibile di echi, la voce in risposta.
Sono dunque iperrealisti manifesti, parlanti pagine di riviste incollate su muri, financo fotografie graffiate, strappate, segnate, violentate non, come credevamo, da una chiusa malinconia estrema da un’aggressione che è lacerazione, ulcerazione, sfregio, di qualcuno o qualcosa che ha colpito. Non un disfacimento interno, ma una esterna impetuosa irruenza, forse persino una crudeltà effettuata senza riflettere, un gesto semplicemente, che voleva essere segno di un trascorrere o meglio di un rifiuto a lasciarsi coinvolgere. Un ferire la bellezza, un respingerla, in qualche modo un cancellarla, non nel senso di annullarla, ma semplicemente di estraniarla dal nostro mondo di relegarla in una dimensione diversa dal nostro presente, dove è ammessa solo se denuncia insieme il suo essere sopravvivenza di altre stagioni, la sua natura di immagine senz’anima, anche se i graffi, le lacerazione danno a questa intatta bellezza un’aria di sofferenza che tuttavia si interpone a tanta perfezione, non la scalfisce, ne segna solo come una ragnatela, il fascino rendendolo ancor più lontano ed intangibile, ancor più estraneo all’umano imperfetto, eppure come abbruttito, vulnerato ed offeso, ponendo, tra il passato a cui la figura appartiene e l’oggi, una griglia, una rete – che è segno di altro tempo intermedio, di altra violenta stagione. Non c’è spazio per la sospensione di qualcosa che dall’esterno ha fiorito, violentato, cercato di cancellare con strappi, unghiate, punteruoli tata indifferente bellezza, estranea persino al suo mutare per un gesto che comunque non poteva negarne la natura eccezionale, straordinaria.
La bellezza è oltre, è in qualche modo eterna e quindi indifferente. Denuncia sempre la nostra piccolezza, le nostre carenze e limiti. L’impossibilità stessa di ferire il bello se non cancellandolo totalmente. Estraniarlo non serve, dunque. Sono affreschi scialbati, pagine di diario con immagini che nuotano su parole, su appunti scritti con grafia vibratile, piena di umori, mentre le figure emergono con una loro ridente isolata allegria interna, con un loro irridente affiorare navigando sulla pagina. Sono pagine di giornale ridipinte con lacerti della stampa originale.
Molteplici sono le occasioni che trova Monica Leonardo per costruire le sue opere sapienti e nello stesso tempo riflessioni non tanto sulla caducità della bellezza, che non muore mai, ma sull’apparenza fenomenica, che unica si sottrae in realtà al divenire, come se quello che lei riesce a vedere fosse un momento magico, l’unico di una esistenza, quello nel quale tutte le promesse, tutte le possibilità e tutte le meraviglie sono racchiuse e a lei tocchi la missione di salvarlo, di conservarlo, vestale della malia e dell’incanto, per sempre, mentre viene aggredito da una violenza, che lo caccia già nel passato, che lo toglie a questo scorrere del tempo, proprio ferendolo.
Talora compaiono piccole figure, tentativi di una storia, racconto in nuce, che non intacca l’onnipotenza dell’immagine, ne rende solo più misteriosa l’apparizione. E un narrare all’interno del tempo segreto della figura, che non scalfisce il dramma di un vetro infranto nel quale è rivestita come in un sudario.

Catalogo edito da Mattioli – Parma, Pasqua 2004

Progetto grafico di Luca Coruzzi

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